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Dall’aereo, poco prima di atterrare, si vedono grandi distese di verde e prati brulli o coltivati a lunghe strisce strette strette, qualche casa sparsa qua e là… Appena fuori l’uscita dell’aeroporto di Tirana un brulicare di gente più o meno indaffarata: un chioschetto di bibite e panini, ragazzi e adulti che per un euro si offrono di portarci le valige, donne e bambini che chiedono la carità e persone che, come noi, si guardano intorno alla ricerca di qualcuno.
Siamo arrivati a Shenkoll di sabato e, visto che nel fine settimana non ci sono attività con i bambini, i primi due giorni sono pura osservazione di luoghi e volti.
Una delle prime cose che ci colpisce in questa nostra esplorazione è il modo di guidare...lungo le strade da un villaggio all’altro le persone guidano come fossero su una pista da rally e al volante di tante macchine non è difficile vedere ragazzini dai dodici, tredici anni in su...sembra di stare sulla pista degli autoscontri e invece siamo in strada…strade polverose, strade che, negli anni della dittatura, sono state appositamente costruite piene di curve per impedire l’ atterraggio di aerei nemici, strade sterrate o non ancora finite.
Di villaggio in villaggio incontriamo carretti colmi di angurie e trainati da animali, bambini che pascolano mucche e pecore, uomini che arrostiscono pannocchie sul ciglio della strada e donne che lavorano nei campi rastrellando e accatastando l’erba. In Albania il fieno si accumula ancora in grossi covoni battuti a forza per compattare l’erba appena tagliata; in Italia non si vedono più i covoni di fieno, c’erano ancora quand’ero piccola io e d’estate il campo di mio nonno diventava, per me e i miei fratelli, una pista ad ostacoli e i covoni meno alti mettevano alla prova la nostra agilità. Ora ci sono le macchine che in pochi minuti sfornano balle di fieno perfettamente tonde o quadrate che poi si caricano immediatamente sui carri…non serve più accatastare l’erba da noi, in Albania invece quei grossi mucchi si fanno ancora.
“Si fanno ancora” molte cose in Albania, come vendere frutta e verdura agli angoli delle strade o camminare a piedi per chilometri per andare a messa o a scuola. La domenica, in particolare, le donne camminano sotto il sole: fazzoletti neri in testa a coprire i lunghi capelli raccolti in trecce, e calze scure che, incuranti del caldo, velano le gambe perché lasciarle nude non sta bene.
E poi in Albania ci si sposa tanto, sarà il periodo o semplicemente una coincidenza, ma non ho mai visto tanti matrimoni come nelle settimane trascorse a Shenkoll.
Altre cose invece in Albania non si fanno proprio, o si fanno solo in città, ma non nei villaggi dove siamo stati noi. Le donne di sera non escono e anche di giorno non hanno grosse possibilità di andare in giro, non ci sono donne o ragazze sedute ai tavolini dei bar.
Un’altra cosa difficile da fare in Albania sembra essere finire di costruire le case. Lungo le strade che portano a Tirana e Scutari non si contano le case in costruzione, le fondamenta circondate da erba incolta o i mattoni ancora avvolti nel cellofan…Non sembrano davvero lavori appena iniziati o in fase di rapida prosecuzione, sembrano intenzioni, sogni, speranze che un po’ alla volta prendono forma, nascono, crescono, a volte si interrompono, forse definitivamente, altre volte giungono a termine, magari con i soldi delle rimesse di qualche parente emigrato all’estero. E ogni tanto le vedi queste case appena finite, villette nuove, ampie e colorate che inevitabilmente stridono a pochi metri da casupole di pietra dall’aria logora o da qualcuno dei tantissimi buncher che crivellano il suolo Albanese, ricordo inquietante di un passato che ancora pesa sul paese e la sua gente. Vecchio e nuovo che convivono insieme, memoria e squarcio sul futuro uno accanto all’altro, ennesimo esempio delle antinomie che caratterizzano un paese che sta faticosamente cercando se stesso e la propria direzione, testimonianza di una realtà ancora difficile e problematica in cui c’è ancora tanto da fare, ma in cui non mancano, come spesso si tende superficialmente a credere appiattendo l’analisi dei fatti su generalizzazioni o banali stereotipi, le spinte e la volontà di riuscire, di darsi da fare per cambiare ciò che non va, per costruirsi un futuro migliore.
Anche a noi, a volte, certe situazioni sembrano incomprensibili, impossibili da condividere, sentiamo che le emozioni, la gioia genuina che ci dà lo stare lì con i bambini, la scoperta di luoghi e tradizioni diversi, urta pesantemente con alcune sensazioni di “rifiuto”verso altri aspetti che giorno dopo giorno entrano nel nostro quotidiano. E’ strano come sapere certe cose, leggerle su libri e giornali, sia diverso dal sentirle raccontare direttamente da chi le vive o dallo sperimentarle in prima persona. Una delle realtà più dure da accettare è probabilmente la presa di coscienza di come sia difficile essere donna in certi luoghi; nei villaggi la sottomissione femminile è ancora fortissima ed è impossibile non accorgersene, così come è impossibile non accorgersi dei rancori, dei pregiudizi verso determinati gruppi o persone che anche in Albania, come ovunque purtroppo, avvelenano la convivenza, l’incontro tra le persone. Anche i legami familiari, pure così forti e importanti, possono essere dimenticati, recisi per un “errore”, una “colpa”, una scelta diversa...il perdono è una rarità, una debolezza, non c’è spazio per l’empatia, per capire ragioni e motivazioni differenti, più facile vendicarsi, far valere la forza di ataviche convinzioni e abitudini.
Eppure poi mi giro, incontro qualcuno e sento la forza traboccante della sua ospitalità, la voglia di condividere quello che ha, di parlare, raccontarsi, ascoltare, aprirci le porte di casa. Sono in spiaggia e qualcuno appena conosciuto mi regala un cocomero o dieci persone diverse ci aiutano a tirar fuori il pulmino affossato nella sabbia; siamo per strada che aspettiamo le pannocchie arrostite e qualcun altro, che fino a due minuti prima non conoscevamo, ce le offre perché siamo i benvenuti nel suo paese...sarà per questo che una delle prime parole albanesi che abbiamo imparato a dire è “falemindèrit” (grazie).
Certo mi chiedo se tutta questa gentilezza deriva solo dal fatto che siamo italiani, ma poi ci rifletto e mi rendo conto che non sono ospitali solo per questo, che non è il calcolo ad avvicinarli a noi. Nessuno ci ha mai “chiesto” nulla; certo avere l’“italiano”in casa o alla festa di matrimonio fa effetto, ma è uno “scambio” reciproco dato dalla più sana curiosità dell’individuo verso un altro individuo…sentimento assolutamente da alimentare, da diffondere, sperando possa essere contagioso, unica strada verso l’incontro, la convivenza la comunione autentica fra le persone e le culture.
Nelle tre settimane trascorse in Albania non so se ho capito veramente qualcosa di quella terra, del popolo che la abita, forse si è aperto uno spiraglio da cui continuare a guardare, osservare..sicuramente sono nati mille dubbi e domande, si sono moltiplicati i punti di vista..la realtà va scandagliata, approfondita, ti appare nella sua complessità e scomporla, capirla è un lungo viaggio, metaforico e non, un pellegrinaggio dell’uomo verso l’uomo, perché incontrare l’altro è incontrare anche se stessi, un viaggio che in realtà non ha una sola meta e può condurti per mille strade diverse o anche interrompersi..però intanto ci si mette in cammino, con i piedi sì, ma anche con la testa, il cuore, i pensieri…
Mentre scrivo mi tornano alla mente tante immagini, volti, espressioni, paesaggi stupendi, momenti che per mille motivi diversi si sono fissati nella mia memoria. Quei ventuno giorni sono trascorsi così veloci da farmi girare la testa, da farmi arrivare all’ultimo giorno chiedendomi: “Ma come è già finita?”. No, un’esperienza così non finisce risalendo sull’aereo verso casa, come ho già detto è un viaggio che continua. Devo ancora mettere a fuoco tante cose, pensieri, gesti, sensazioni…ma dentro mi sento così carica, ricca di qualcosa che ancora non so spiegare, non so neppure se lo saprò mai fare, ma in cui ritrovo ogni volta che chiudo gli occhi i volti e le voci, i suoni e gli odori che mi hanno accompagnata in quelle settimane. I bimbi, così uguali, nella voglia di giocare ed essere amati, a qualsiasi altro bambino già incontrato, eppure così diversi negli sguardi che raccontano di altre storie, altre realtà, abbracci così forti da disorientarmi, affetto così spontaneo e manifesto da riempirmi il cuore in un istante, tanti infiniti “grazie” per quel pochissimo che davo loro e che in confronto a tutto quello che sentivo di ricevere sembrava ogni giorno irrimediabilmente inadeguato; i ragazzi degli altri gruppi, persone mai viste prima che in poco tempo sono riuscita a sentire così vicine…tanta voglia di condividere, di stare insieme, di raccontarsi per il semplice fatto di trovarsi lì, uno di fronte all’altro, sotto il cielo d’Albania e la voglia, il bisogno di cercarci anche dopo, quando ognuno era ormai tornato alla propria vita; i miei compagni di viaggio, che in modo quasi incredibile sono stati da subito parte di me, sentivo che eravamo davvero un gruppo, che un filo rosso chissà come ci univa; i Padri e le altre persone che per tanti motivi hanno reso ancora più straordinaria quest’esperienza in Albania.
E’ passato poco più di un mese da quando tutto questo e molto più di quello che riesco a esprimere scrivendo, era il mio quotidiano, da quando le campane di Shenkoll mi ricordavano ogni mattina alle 7.00 che quel giorno sarebbe stato speciale, che avrei dovuto assaporarne ogni istante e appropriarmene per conservarne la forza…ci sono alcuni momenti, magari brevi ma ugualmente pungenti, in cui avrei voglia di essere ancora là..non posso esserci, ma la forza di quello che ho vissuto la sento ancora.. e spero che in un modo che ancora non so, continui a far parte di me.
Ogni volta che affronto un viaggio mi dico: “e ora dove vai carico di così tanti ricordi, di così tanto amore, di così tanti sogni?”
(Luis Sepùlveda)
…auguro a ogni persona di potersi chiedere la stessa cosa e di provare in qualche modo a cercare la risposta.
Un topolino dei fumetti, stanco di abitare tra le pagine di un giornale e desideroso di cambiare il sapore della carne con quello del formaggio, spiccò un bel salto e si trovò nel mondo dei topi di carta e d'ossa. |
La foresta era la mia casa. Ci vivevo e ne avevo cura. Cercavo di tenerla linda e pulita. Quando un giorno di sole, mentre stavo ripulendo della spazzatura che un camper aveva lasciato dietro di sé, udii dei passi. Con un salto mi nascosi dietro un albero e vidi una ragazzina piuttosto insignificante che scendeva lungo il sentiero portando un cestino.
Sospettai subito di lei perché vestiva in modo buffo, tutta in rosso, con la testa celata come se non volesse farsi riconoscere. Naturalmente mi fermai per controllare chi fosse. Le chiesi chi era, dove stava andando e cose del genere. Mi raccontò che stava andando a casa di sua nonna a portarle il pranzo. Mi sembrò una persona fondamentalmente onesta, ma si trovava nella mia foresta e certamente appariva sospetta con quello strano cappellino. Così mi decisi di insegnarle semplicemente quanto era pericoloso attraversare la foresta senza farsi annunciare e vestita in modo così buffo.
La lasciai andare per la sua strada, ma corsi avanti alla casa di sua nonna. Quando vidi quella simpatica vecchietta, le spiegai il mio problema e lei acconsentì che sua nipote aveva immediatamente bisogno di una lezione. Fu d'accordo di stare fuori dalla casa fino a che non l'avessi chiamata, di fatto si nascose sotto il letto.
Quando arrivò la ragazza, la invitai nella camera da letto mentre io mi ero coricato vestito come sua nonna. La ragazza, tutta bianca e rossa, entrò e disse qualcosa di poco simpatico sulle mie grosse orecchie. Ero già stato insultato prima di allora, così feci del mio meglio suggerendole che le mie grosse orecchie mi avrebbero permesso di udire meglio.
Ora, quello che volevo dire era che mi piaceva e volevo prestare molta attenzione a ciò che stava dicendo, ma lei fece un altro commento sui miei occhi sporgenti. Adesso puoi immaginare quello che incominciai a provare per questa ragazza che mostrava un aspetto così carino ma che era evidentemente una bella antipatica. E ancora, visto che per me è ormai un atteggiamento acquisito porgere l'altra guancia, le dissi che i miei grossi occhi mi servivano per vederla meglio.
L'insulto successivo mi ferì veramente. Ho infatti questo problema dei denti grossi. E quella ragazzina fece un commento insultante riferito a loro. Lo so che avrei dovuto controllarmi, ma saltai giù dal letto e ringhiai che i miei denti mi sarebbero serviti per mangiarla meglio.
Adesso, diciamoci la verità, nessun lupo mangerebbe mai una ragazzina, tutti lo sanno; ma quella pazza di una ragazza incominciò a correre per la casa urlando, con me che la inseguivo per cercare di calmarla. Mi ero tolto i vestiti della nonna, ma è stato peggio. Improvvisamente la porta si aprì di schianto ed ecco un grosso guardiacaccia con un'ascia. Lo guardai e fu chiaro che ero nei pasticci. C'era una finestra aperta dietro di me e scappai fuori.
Rotonde le case, le teste, i piedi, le porte e le finestre.
La gente rotolava allegramente: c’erano cerchi grandi, piccoli, rossi, verdi, un po’ storti, con qualche ammaccatura....
Un giorno in questo villaggio arrivò un viaggiatore.
Era già capitato e non vi era niente di strano, se non, e non era poco, che questo viaggiatore era quadrato.
A "Quadrato" quel paese senza spigoli sembrò strano ma gli piacque e decise di fermarsi.
Ai rotondi capitò una cosa curiosa.
Prima dell'arrivo di quadrato gli sembrava di essere così diversi tra loro, ma quando c'era lui si erano resi conto di essere proprio simili. Quadrato si accorse subito che qualsiasi cosa facesse, ovunque andava tutti lo guardavano; tutti quegli occhi addosso lo innervosivano, si sentiva continuamente come un equilibrista sul filo, e più cercava di stare attento , più gli capitava di combinare guai.
Anche se, per la verità, anche ai rotondi capitava di sbagliare, ma quando lo faceva lui, sembrava più grave.
Quadrato stava malissimo quando sentiva bisbigliare alle sue spalle. "Tutti i quadrati sono maldestri e rovinano le cose. Per forza, con quei loro spigoli aguzzi!!!" Certo non era facile avere una forma quadrata in mezzo a tutti quei cerchi. Persino le porte erano un problema. Stufo di stare da solo cercò di conoscere alcuni abitanti e pensò che il modo migliore per farsi accettare fosse di dimostrare quante cose sapesse fare.
Cercò di fare tutto più in fretta e meglio dei cerchi: lavorare, essere gentile, organizzare feste, raccontare barzellette.
Ma non andò molto meglio. Era stanco e i rotondi continuavano a comportarsi in modo strano, diverso, quando c'era lui. Pensò allora di farsi notare meno, di cercare di essere il più possibile simile a loro: si arricciò i capelli, si mise grossi vestiti che nascondessero gli spigoli, riempì di cotone le scarpe, e cercò persino di parlare con accento rotondo. Ma nemmeno questo funzionò.
Quadrato si sentiva ridicolo e i cerchi sembravano infastiditi del suo tentativo di imitarli. Finalmente gli sembrò di capire.
Forse sbagliava a voler diventare amico di tutti subito.
Forse il segreto era quello di cercarsi un unico cerchio amico che poi lo avvicinasse agli altri.
Aiutò un cerchio che aveva conosciuto a imbiancare la casa, gli tenne compagnia quando era solo, lo aiutò nel lavoro, sfruttò per lui i suoi spigoli quando servivano…
E le cose effettivamente migliorarono un pochino…. Ogni tanto cerchio portava quadrato a qualche festa, o lo ringraziava del suo aiuto. Ma quadrato non era felice, la loro non si poteva chiamarla amicizia, si sentiva più aiutante (ogni tanto addirittura servo) che amico, e soprattutto si era accorto che gli altri lo ascoltavano di più e ridevano delle sue battute se parlava male degli altri quadrati, se li prendeva in giro come facevano loro all'inizio con lui, se confermava che tutti i quadrati sono rozzi, goffi e violenti, che rubano i bambini rotondi, che tolgono posti di lavoro ai cerchi, che sono pigri e pettegoli…
Una mattina quadrato si alzò più triste e stanco del solito, e decise di andarsene. Mentre attraversava il paese con il suo zaino, si accorse, fra i tanti sguardi che lo accompagnavano, di alcuni che sembravano dispiaciuti, imbarazzati, come lui; che sembravano non trovare il coraggio o le parole da dirgli. Anche a lui non veniva in mente nulla. Così tirò avanti verso il suo paese.
Il solo dispiacere che gli restava era di non aver incontrato prima quegli sguardi incerti, ed aver parlato con loro, aver provato a raccontargli come si sentiva, ed avergli chiesto cosa provavano loro.